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Ma che freddo fa, ma che freddo che fa

5 novembre 2016

Investito da repentino quanto irrefrenabile desiderio di gelato al limone, fischiettando l’allegro motivetto del pulcino di Gabbro “d’inverno il sole stanco / a letto presto se ne va / non ce la fa più / non ce la fa più / la notte adesso scende / con le sue mani fredde su di me / ma che freddo fa / ma che freddo fa” apro la cella del frigo e getto un’occhiata all’interno. Il mio sguardo congela l’istante e all’istante nella cella dove sono imprigionati, da anni, i desideri gastronomici che congelai tempo fa. Ormai ghiacciati, è pur giunto il momento di causarne lo scioglimento. Rovisto con la mano fra sacchetti dal contenuto indefinito, sconosciuto, con le etichette scolorite, dalle parole irriconoscibili scritte con calligrafia illeggibile da mano tremante e il giudizio incerto per un dubbio sovrastante: ma che cazzo ho cucinato? Dubbio infugabile ma congelabile. Per identificarne la sostanza dovrei scongelarne qualcuno e analizzarlo, ma… ad anni di distanza, se poi il contenuto non sarà più di mio gradimento? Gli alimenti, una volta scongelati, non si possono ricongelare più, se no ti viene il cancro, almeno così dicevano in tivvù, ora lo dicono in internet. Quindi, la mia ricerca prosegue verso i ghiaccioli ignoti, fra le lande sconfinate del mio freezer. Vere e proprie distese ghiacciate, che nascondono etti ed etti di cibo. C’è anche un sacchetto contenente un jeans, sarà di Lucilla. Li congela per non lavarli, anche questo l’avrà letto in internet. La nuova bibbia, però scritta un po’ da tutti, prima della scadenza indicata sul retro di ciascuno di noi. Siamo tutti umani bibliodegradabili! Intanto continuo a rovistare con la mano infreddolita, dai bianchi polpastrelli come callo di medusa da una vita in ammollo, ma non trovo l’agognato sorbetto. Mi avvicino di più con il mento all’altezza della base del freezer. La frescura mi carezza il volto, è piacevole in queste calde ore pomeridiane, come è piacevole avvicinare la bocca al ghiaccio e inspirarne il gelo, tirare fuori la lingua e assaggiare la superficie refrigerata, mentre il paesaggio appare completamente bianco, sorta di pack casalingo immerso nel whiteout antartico quattro stelle, nella cui nebbia perdermi in un agghiacciante riverbero da sogno… ma un evento mi riporta alla ben più fredda realtà.
“Nn poto moveve pù a’ ingua, è ‘ncoada a’ feezev… mmmh, che dovove.” Sono lì, come un deficiente incollato con la lingua alla brina congelata, impossibilitato a muovermi. “Che situazione,” penso e più mi dimeno più la mia lingua resta attaccata al freezer, ormai sempre più recluzer. Sbraccio all’indietro per cercare di prendere qualche oggetto, che mi sia utile per staccare la mia appendice, ma sembrano tutti fuori portata delle mie braccia, irrimediabilmente corte. “Eccola” penso, sbirciando di sottecchi la schiumarola. “Ci stacco gli hamburger attaccati al fondo bruciacchiato della padella…” rifletto. Intanto la mia lingua è diventata viola, la tocco con le dita, ma è del tutto insensibile, come una scaloppina morta. Afferro forte il frigo con le mani dalle nocche sbiancate per la presa da flipperista consumato e comincio a sbatterlo, con il solo risultato di rischiare il tilt e perdere la partita e la lingua, strappata dalla mia bocca dalla caduta rovinosa dell’elettrodomestico… no, devo smetterla con quest’idea sballata di far ballare il frigo. La lingua non si stacca, non dovevo metterla proprio lì, eppure sono un tipo taciturno, non metto mai lingua, mi faccio i fatti miei. Di certo, ora è venuto il turno di tacere per un bel po’, spero non per sempre. Intanto trilla il cellulare, ma se la suona da solo di là, a debita distanza nell’altra stanza, come sempre dal giorno in cui l’ho acquistato. Poi lo chiamano portatile, se fosse tale di fatto e non solo di nome l’avrebbero dotato di un gancio, di una ventosa da far aderire a pressione al proprio corpo, in modo da averlo sempre a portata di mano o meglio, d’orecchia. Invece no, l’ho lasciato di là, probabilmente sul sofà e ora che mi occorre per una questione di vita o di morte se ne infischia e fischia l’orribile motivetto della suoneria che ha scelto Lucilla, che sia proprio lei? Magari, potrebbe aiutarmi a staccare la spina al frigo e farmi compagnia in attesa di liberarmi dalla presa dei ghiacci.
È il mio destino, le lingue sono sempre state il mio cruccio, in inglese andavo assai maluccio e… sto vaneggiando, oltre la lingua mi si sta congelando anche il naso e in esso il moccio ivi contenuto, che son solito tirar su, si… tirar su col moccio di rushdiana memoria, tirar col naso il moccio fin su nel cervello. Quindi, mi si sta congelando la materia grigia! Anche in questa materia a scuola andavo assai maluccio, un somaro matricolato rimasto per sempre allo stadio di matricola, gareggiando con l’istituzione scolastica nell’intento di abbandonare gli studi prematuramente prima che quelli m’avessero fatto diventar scemo del tutto. “Chissà chi ha vinto,” rimugino ora, mentre la lingua ormai non so più cosa sia, non m’appartiene più, gira in slitta da canini sul pack di surgelati Fintus, tipo “Quattro saraghi e una patella”. Piango lacrime di ghiaccio quando suonano alla porta. Un sussulto mi prende in pieno e comincio a sbraitare in linguaggio zeppoluto che sono in un mare del nord di guai, ma la mia voce somiglia al guaire del cane della vicina. Magari è lei con il suo amico a quattro zampe, forse un cane da soccorso, che mi tirerà in slitta verso il campo base, dove i miei compagni d’avventura accenderanno un fuoco per farmi scongelare e riprendere i sensi… che pian piano sento di perdere, come parte della faccia, già persa moralmente per la cazzata immane che sto compiendo.

Arma (Bianca) Duck


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