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A teatro a partecipare a La trilogia degli occhiali di Emma Dante

13 febbraio 2011

È venerdì 4 febbraio 2011. L’appuntamento è per le venti e trenta fuori al teatro San Ferdinando, il teatro di Eduardo nell’omonima piazzetta. Un teatro storico, ma dalla vita travagliata. Costruito alla fine del Settecento, veniva inaugurato con l’opera Il Falegname di Domenico Cimarosa. A fine Ottocento accolse i successi di Eduardo Scarpetta, fu distrutto dai bombardamenti nella Seconda Guerra mondiale, poi ristrutturato da Eduardo De Filippo dopo averlo acquistato e indebitatosi per realizzarne la ricostruzione. Nel 1996 il San Ferdinando venne donato da Luca De Filippo al Comune di Napoli. Restaurato per l’ennesima volta venne inaugurato nel 2007 con La Tempesta di Shakespeare, in dialetto napoletano dell’epoca barocca come da traduzione eduardiana del 1984. Adesso fa parte del Teatro Stabile di Napoli e martedì scorso ha accolto il debutto della Trilogia degli occhiali, l’ultimo spettacolo di Emma Dante, prodotto dal Teatro Stabile di Napoli, Compagnia Sud Costa Occidentale, Crt Centro di Ricerca per il Teatro con la collaborazione del Théâtre du Rond Point, Paris. Dopo aver letto le notizie che mi interessano, chiudo Firefox, spengo il computer, mando un sms a entrambi gli amici ai quali ho dato appuntamento, Pulp Pecora e Learco Risembra e penso alla serata che sto per vivere: l’incontro con tre vecchi amici, due in platea con me e l’altro sul palco a interpretare il monologo Acquasanta, Carmine Maringola, protagonista del primo atto della Trilogia.
In bici percorro la strada che separa casa mia dal teatro e ripercorro mentalmente gli anni passati insieme. Senza perdermi in sentimentalismi inutili ricordo con affetto i bei momenti, ma anche le infinite discussioni sul teatro, sull’arte, la letteratura, i voli pindarici che spiccavamo nelle fredde serate invernali, scaldandoci il cuore con mille progetti e cose da fare e il corpo con del buon vino. La ricordo come una stagione della mia vita davvero caotica, nel senso buono del termine, s’intende.
Lucchettata la bici a un palo mi avvio verso l’ingresso del teatro, ristrutturato com’era un tempo, almeno apparentemente. Nel foyer saluto Learco, l’avevo incontrato per caso qualche giorno prima dopo esserci persi di vista per svariati anni. Eravamo soci in affari, ci occupavamo di grafica. Baci e abbracci come se niente fosse, come se avessimo continuato a vederci senza alcuna interruzione temporale. La chiamo la virtù della “capa fresca”,  la determinazione a essere, in fondo, sempre gli stessi ragazzi di un tempo, nonostante la vita, in genere, sia quel che è. Piuttosto un rompicapo, se ti gira bene, altrimenti tendente a romperti ben altro. La nostra, fortunatamente, fila a gonfie vele e scoppiamo in una grassa risata condita di ricordi alla senape appena vediamo Pulp, dal caratteristico odore speziato! Perentoriamente ci scappelliamo all’unisono e un istante dopo constatiamo l’incipiente calvizie di tutti e tre. Niente paura, l’essere capellone è una caratteristica interiore, non ha nulla a che fare con le lunghe chiome ormai svanite. Quelle ingrate, per anni portate orgogliosamente a spasso per poi tradirti prima col cuscino e dopo col pettine.
Consegnati i biglietti a un avvenente riccia in tailleur blu, ci avviamo a passo svelto verso l’ingresso per la platea. Non essendo numerati i biglietti, non vogliamo rischiare di capitare in poltrone o troppo laterali o magari dietro tre tipici spettatori spilungoni, una razza mai in via d’estinzione. Mentre aspettiamo che l’ennesima hostess apra la finta catena sorretta da due altrettanto finte balaustre, orribili elementi in simil plastica simil bianco/rossa, che mi fanno ricredere sulla bontà della ristrutturazione del teatro, piuttosto “simil” direi, parliamo a vanvera come si confà ad amici di vecchia data, che non si raccontavano cazzate da un bel po’ di tempo. La cazzata del momento è la terapia di coppia, cui Learco è riuscito a sfuggire per un soffio lasciando giusto in tempo la sua ormai ex. Le nostre risate sguaiate s’inseguono l’un l’altra intervallate da battute vergognose. La smettiamo soltanto quando cade il diaframma che separa la realtà dalla finzione teatrale e, come bufali imbizzarriti, ci scapicolliamo su per le scale per accaparrarci i “meglio posti”. Pulp Pecora corre in pole position agitando le lunghe braccia per non farsi superare da emeriti sconosciuti, certamente lì non per vedere il loro, ma il nostro amico del cuore, amico nostro e solo nostro. Pulp ha già visto lo spettacolo martedì, cosa che mi rassicura sulla bontà dell’opera, anche se io non ho dubbi quando si tratta di Emma Dante, idem per Carmine Maringola, già lì in scena a sipario aperto!
Entriamo in platea e Pulp si dirige verso l’obiettivo, dopo aver buttato per aria due anziane signore. Ottima mossa, perché gran parte dei presenti si distrae per soccorrere le vegliarde e noi ne approfittiamo per conquistare le poltrone centrali. Io e Learco ignoriamo il motivo per cui Pulp abbia scelto la seconda fila anziché direttamente la prima. Quando gli spettatori seduti davanti a noi vengono bersagliati da fiotti d’acqua lanciati dall’abile bocca del Maringola, condividiamo l’astuta mossa del Pecora.
Il nostro amico attore ci nota, noi lo salutiamo con evidenti cenni del cuore, pulsante già all’impazzata per questioni d’affetto. Egli siede nello scenografico gozzo con il mezzo busto in vista, continuando a bere da una bottiglia sorsate d’acqua, inevitabilmente sputate a zampillo su chiunque osi passargli davanti. I nostri sguardi s’incrociano e il mio cuore zampilla d’emozione. È un po’ come partecipare alla messinscena, Carmine lo sa.
Lui è essenzialmente cambiato, il suo volto pare trasformato. La sua è senz’altro una maschera teatrale, ma l’effetto  mi sconvolge. Giuro che non mi farò condizionare, nel formarmi un giudizio critico sullo spettacolo, dall’affetto che mi lega a costui.
Il monologo ha inizio, l’attore dà la corda, gorgheggiando sonori gargarismi, ai numerosi orologi appesi a cascata sul suo capo. Fatidicamente si spengono le luci e un turbinio di suoni, luci, gesta atletiche dell’attore in scena ci assalgono. La ridondanza sonora e visiva impera, ma va bene così. La scarna scenografia, composta da funi con ancore pendenti, il nugolo di orologi, due aste ai lati della prua della barca con infilzati alla sommità un cappello da marinaio a sinistra e un cappello da capitano a destra, un piccolo megafono sulla punta della sintetica nave,  una tortura della goccia che si splascia in due pentole poste  in fondo al palco, l’attore che balla una danza sincopata ci si riversano contro, spazzando via la realtà della vita dalle nostre menti predisposte a ricevere l’ignoto, ma fino a che punto?
Il punto ci viene tirato in faccia come una pallina di gomma nera, che prende a rimbalzare intensamente sulle teste di ognuno lasciando, sulla mia sicuramente, un segno indelebile di commossa graditudine per ciò che accade. La recitazione è sincronica, moderna, lacerata da lampi di teatro della tradizione napoletana, sia del “palco” che della “strada”. L’attore recita in dialetto partenopeo assumendo, tanto vocalmente quanto somaticamente, le espressioni di un intero popolo, triplicandosi in tre personaggi: il marinaio, il capitano e “o’ spicchiato”, il mozzo protagonista del monologo. Il passaggio da un personaggio all’altro è dato, oltre che dalla posizione sul palco, da abili e netti gesti, dal differente copricapo, dall’utilizzo sempre diverso di un paio di occhiali e dall’apparire della schiuma del mare. L’effetto è travolgente e ci proietta dalla platea direttamente sulla nave della vita, che naviga sul palco squarciando le assi di legno, tra bufere, cattiverie nei confronti del mozzo, oppressione dei più deboli, disadattamento e difficoltà d’inserimento in un contesto, quello reale, troppo spesso crudele o, al massimo, totalmente indifferente nei confronti dei singoli individui, sempre più inermi di fronte alla grande muraglia umana che circonda tutti. Il finale del monologo lo lascio all’immaginazione di chi respirerà l’aria di brezza marina dopo di me, nelle altre tappe della turné. Dico solo che al riaccendersi delle luci in platea le mani scattano sincere, spontanee, come se tutti i presenti fossero amici di vecchia data di Carmine Maringola. Acclamazione meritata per l’ottima pièce, sia per quanto riguarda i testi, che per l’interpretazione e in ultimo, ma non per importanza, per la scenografia e l’arredo scenico. Al calmarsi delle ondate e degli scrosci di applausi torna la quiete, l’attore torna sulla nave a prua, il pubblico ondeggia e va alla deriva altrove, ad avvistare altre terre, altre genti, altre storie.
Anche noi tre ci facciamo pigramente trasportare dalla corrente. Io, ancora confuso dall’interpretazione del mio vecchio amico, sono felice, ma stavolta con la sensazione, dolce e amara al contempo, di averlo visto partire per un viaggio più lungo del solito. Chissà se un giorno ci ritroveremo, per il momento la sua nave viaggia a vele spiegate alla volta del Circo Popolare Teatrico e io resto qui, a salutarlo dalla banchina, saldamente ancorato con i piedi per terra, a sventolare un fazzoletto troppo piccolo affinché lui lo veda, ma abbastanza grande per asciugare lacrime di gioia.
Al rientro in sala il sipario è chiuso per consentire il cambio di scena. Dopo poco si spengono le luci, la cortina si dirada e due bambole rosse, ai lati del palco, rapiscono la nostra attenzione. Un istante dopo cediamo al ricatto visivo dell’intera scena, riempita dai gesti convulsi di due attrici, Claudia Benassi e Stéphanie Taillandier, protagoniste del secondo atto insieme all’attore Onofrio Zummo, seduto immobile su una sedia alla sinistra in fondo al palco. Le attrici vanno incessantemente di qui e di là, verso le quinte per poi tornare al pubblico, parlottano tra loro gesticolando animatamente e, mentre accade tutto ciò, si vestono da monache. Sono lì per assistere il guardiano de’ Il castello della Zisa, rimasto intrappolato nelle segrete della sua mente. Lo lavano, lo accudiscono, cercano di stimolarlo tirandogli contro piccoli giocattoli, palline e fanno girare un hula hoop attorno al suo braccio, ma senza alcun risultato. Il ragazzo è assente, non risponde all’appello delle due. L’animazione cresce. Il voler fare qualcosa per il povero ragazzo fa giungere le suore a litigare, con punte di comicità da commedia dell’arte, tutta basata sui gesti e l’assenza di un dialogo comprensibile. Sostituito da una sorta di grammelot fatto di suoni, parole e fonemi che riempiono di significato la discussione fra le due attrici, molto brave, che liberano nella sala del teatro l’univoca vocazione propria di un sistema incapace di gestire la malattia mentale, troppo spesso affidata a semplici manutentori. Difatti il ragazzo cade, da solo, dalla sedia e sempre più in sé stesso. Il litigio sale, sale e l’iniziale comicità si trasforma in griglia sulla quale tutti friggiamo in platea, a disagio per il tempo perso, come persa è ormai l’ennesima storia di un ragazzo difficile.
Le suore ricominciano daccapo il discorso interrotto, volto a stimolare la ragione del ragazzo. Progressivamente la reazione prende corpo, sino a trasformarsi in una catena di gesti e rimpalli e mosse e il personaggio torna in sé non fermandosi più. Comincia a raccontare la sua vita, la vita e la vita degli altri, stavolta facendosi comprendere benissimo. Gli attori gestiscono lo spazio scenico. Gli occhi sono sazi, le orecchie si deliziano al dialetto palermitano gustandone la cantilenante melodia. Il secondo atto volge al termine e l’applauso del pubblico è sincero.
A sipario per la terza volta alzato la scena è buia, come in un sonno insonne. Due bauli fanno da scudo agli attori protagonisti del terzo e ultimo atto, Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco in Ballarini. La donna collega una spina a una presa e d’incanto la scena muta, una miriade di stelle fa il suo ingresso in scena. I due attori, entrambi truccati dalla maschera della vecchiaia, inziano il ballo dello loro vita insieme, del loro amore. Dapprima con gesti impacciati, traballanti poi, dopo i festeggiamenti dell’ennesimo capodanno insieme, condito da una pioggia multicolore di coriandoli, si muovono sulla scena del tempo a ritroso. Le ore, i giorni, gli anni ballano al ritmo delle canzoni del secolo scorso passando attraverso tutte le stagioni della vita. Il matrimonio, la gravidanza, il parto e la crescita di un figlio, in un vortice emozionante che tira in ballo i ricordi dell’intera platea del teatro. I due attori, in una sequenza unica e senza mai fermarsi, ci donano con grande capacità la loro storia, la nostra storia, la storia del nostro paese, che troppe volte fingiamo di dimenticare per insensata incuria nei confronti delle cose uniche, preziose.
Lo spettacolo volge al termine, fra meritati applausi ed elogi. Applaudiamo alla bravura degli attori, alla sapiente regia di Emma Dante, ai suoi testi profondamente teneri. Festeggiamo per l’ennesimo regalo che ci ha fatto. Sorridiamo constatando quanto sia stata delicata e intensa questa sua opera: in una realtà in cui il potere politico ed economico è sempre più interprete del teatro del ridicolo, in cui ognuno mente a sé stesso e agli altri, nella finzione teatrale Emma Dante possiede l’acuta capacità di mettere in scena il teatro del reale, in cui gli attori recitano senza mai mentire. E noi del pubblico gliene siamo grati.
Fuori dal teatro troviamo giusto il tempo per abbracciare i nostri amici, poi qualcuno scrive fine a questa storia e ognuno se ne va per la propria strada a viverne altre.

a cura di (RE)probo (RE)censore